Il cereale che meglio di tutti riesce a gonfiarsi e fermentare (dal latino “fervere” ribollire), ma comunemente detto “lievitare“, è il grano. Anche altri cereali possono panificare, ma solamente il grano ha in sé quella proprietà, il glutine,nella quantità che gli permette di sollevarsi e di diventare fragrante. Tra tutte le varietà di grano tenero alcune non sono adatte alla panificazione. Solitamente la farina utilizzata per fare il pane è una miscela di alcune varietà di grani per avere un risultato buono e fragrante. Il grano si divide in due categorie: grano tenero e grano duro. Il grano tenero è quello più usato per la panificazione e tutti i prodotti da forno, mentre il grano duro è utilizzato in modo particolare per fare la pasta. Il pane del grano di tipo “duro” non riesce a sollevarsi, rimane più compatto, più “pesante”, ma questo non gli impedisce ad essere molto saporito. La panificazione dipende da una componente del grano, il glutine, formato da due proteine, la glutenina e la gliadina. Il pane di grano tenero, delle varietà adatte, può “lievitare” perché ha un glutine consistente, in proporzioni tali (10‑15%) da far lievitare tutta la pasta. Tutti gli altri cereali che contengono glutine hanno questa componente in quantità minore, per cui danno dei pani più compatti e meno lievitati, ma questo non vuol dire che siano meno buoni. L’esempio più appariscente è il pane di segale, molto pesante, che oltre ad essere saporito è molto digeribile e nutriente. Ci sono due tipi di fermentazione, comunemente chiamate “lievitazione”, lievitazione a “pasta acida” e lievitazione con il “lievito di birra”. Da quando esiste il pane la “lievitazione” è sempre stata fatta con la “pasta acida”, detta anche “pasta madre”. Questo pane, tradizionale, era fatto solamente con farina integrale e non con farina raffinata. Come si ottiene la “pasta madre”? Si prendono una decina di coppette di vetro e si mette farina e acqua, si mischia facendo un impasto morbido. Si pongono su un tavolo e si lasciano li. Nell’aria ci sono dei fermenti (esattamente batteri) e, avendo un po’ di pazienza, uno di questi si deposita e inizia a far fermentare un impasto, che si gonfia e comincia a profumare di un po’ di acido. Successivamente si deve lavorare spesso per almeno tre giorni questo impasto, per riuscire ad avere una pasta madre da utilizzare. Non è una cosa semplicissima ma funziona.
Vista la difficoltà nel preparare la pasta madre, la soluzione migliore è riceverla da chi già si fa il pane. Ricominciare a farsi il pane in casa è quindi un’ottima occasione per incontrarci e trovarci con altre persone e stringere nuove amicizie. Regalare la pasta madre diventa l’occasione per scambiarsi informazioni per migliorare la panificazione.
Il pane ha una storia molto antica: gli Egiziani lo conoscevano già 3500 anni fa e da ricerche storiche sembra ne preparassero una cinquantina di tipi. Anche nella civiltà Ellenica del V secolo a.C. si faceva uso di pane, anzi era un cibo comune, molto apprezzato anche per la varietà dei settanta tipi in commercio. In Italia il pane è arrivato tardi, dopo millenni di polente di farro e d’orzo, il famoso “puls”. I Romani vennero a conoscenza di questo alimento quando conquistarono la Grecia e lo portarono a Roma, verso il 200 a.C. Il successo fu notevole, tanto che divenne un alimento comune di tutti i giorni. Determinante per la notevole diffusione del pane il fatto di essere un alimento che si può trasportare senza problemi e si condisce facilmente. In questo modo soppianta la tradizionale e popolare polenta. A quei tempi il consumo giornaliero di pane a persona era in media di 900 gr. A Roma in quel periodo sono nati dei propri e veri panifici con inclusa la consegna a domicilio del pane. L’uso del pane, al giorno d’oggi, ha avuto un drastico calo, con un consumo di 100-150 gr al giorno, compreso quello sprecato e invenduto. Più avanti scopriremo il perché di questa contrazione.
Il pane d’un tempo, che per fortuna, chi vuole, lo si trova tuttora, era un impasto di farina e acqua con aggiunta di sale e la “pasta madre” cotto in forno a legna a temperatura decrescente. Fare questo pane sembra una cosa semplice, ma è un’arte. Arte che fin pochi anni fa tutte le donne conoscevano e realizzavano, così da avere un alimento genuino e nutriente per loro e per tutta la famiglia. Ora si è arrivati all’industria del pane, che dell’arte non ha nulla. Si è dimenticata questa importantissima tradizione e con essa le nostre radici. Chi scorda le tradizioni e le radici perde anche il contatto con le sottili conoscenze del “tutto”.
Che cos’è la “pasta madre”, chiamata pure “pasta acida” o “biga”? Come ho già scritto, dei batteri possono “cadere” nell’impasto e farlo fermentare. Questi batteri opportunamente “lavorati”, svolgono delle funzioni molto importanti: si nutrono degli amidi (carboidrati) contenuti nella farina. Scindono gli amidi in zuccheri semplici, fanno una parte del lavoro che dovremmo fare noi nel nostro intestino. Questo lavoro permette al glutine, che è formato da due proteine idratabili, di formare il “castello”. Queste proteine operano come una rete tappezzata da granuli di amido che formano un tetto sotto il quale i gas (che sono lo scarto della lavorazione da parte di questi batteri nella trasformazione da amidi in zuccheri semplici) intrappolati gonfiano l’impasto. Il gas che si forma da questo processo è anidride carbonica. Nella trasformazione non si crea solo anidride carbonica, ma anche acido acetico, per questo l’impasto ha quel caratteristico profumo. Quando però il pane è troppo acido, e lo si sente dal profumo, vuol dire che la trasformazione è avanzata troppo, per cui sono intervenuti altri ceppi di batteri meno utili per noi. Questa fermentazione si chiama “acido lattica”. Altra osservazione interessante: sono diversi ceppi di batteri che operano per la scomposizione degli amidi e non possiamo avere una mappa unica di questi, perché in ogni luogo ci sono ceppi che non si trovano in altre località. Con un risultato molto bello abbiamo molti tipi di pane fatto fermentare da ceppi diversi, ma il risultato è sempre uguale. Alcuni nomi di questi batteri: “bacterium acidi lactici, bacterium acidificans, bacterium panis fermentati, bacterium casai, bacterium plautorum, ecc” sono tutti batteri che sono in simbiosi con noi, cioè sono utili a noi. Nella fermentazione comunque partecipano anche dei lieviti, tra questi ce n’è uno: Saccharomyces Elypsoideus che ha la proprietà di produrre un “fattore antimicrobico” e “acido lattico” che servono a combattere e a limitare lo sviluppo di diversi germi patogeni (per esempio le salmonelle) che si possono sviluppare nel nostro intestino. Nella farina ci sono degli enzimi e anche loro partecipano alla fermentazione. Il nostro intestino è colonizzato da batteri che permettono la buona digestione e il buon assorbimento degli alimenti. Il pane che noi mangiano ha avuto la trasformazione grazie soprattutto ai batteri, per cui questo pane stimola la nostra flora batterica intestinale perché rimanga sana e vigorosa e affinché operi una buona digestione. Per essere più chiari i batteri della “pasta madre”, che demoliscono e trasformano i carboidrati, operano nello stesso modo in cui lavora il nostro organismo, per cui abbiamo una continuità che possiamo definire “digestiva”. Inoltre la “pasta acida” elimina buona parte del problema della fitina. Questa sostanza contenuta nei cereali per noi può rappresentare un problema per l’assimilazione di calcio, ferro, magnesio. La “pasta madre” trasforma questi composti e li rende innocui, la cottura finale, inoltre, aiuta ancor di più ad eliminare il problema. Per finire trascrivo cosa dice anche la scienza ufficiale da G. Quaglia – scienza e tecnologia della panificazione – “l’impiego nei prodotti da forno del lievito naturale presenta degli indubbi vantaggi rispetto al lievito industriale (di birra)… la maggior durata del processo con il lievito naturale permette un’azione più prolungata degli enzimi protolitici che quindi rendono il prodotto più ricco in composti azotati, più semplici delle proteine, quali gli amminoacidi… il maggior contenuto in amminoacidi ed in zuccheri semplificati nel prodotto ottenuto con lievito naturale, rispetto a quello ottenuto con lievito industriale (di birra), determina la fragranza del prodotto… maggiore digeribilità ed assimilabilità dei prodotti da forno a lievitazione naturale rispetto a quelli a lievitazione artificiale (lievito di birra) ed ancor più rispetto a quelli a lievitazione chimica, in quanto l’azione enzimatica della lievitazione biologica e la maggior durata del processo con il lievito naturale provoca, a carico delle sostanze componenti l’impasto, processi di trasformazione in molecole più semplici, trasformazioni analoghe a quelle che avvengano con la digestione degli alimenti che quindi, se già avvenute in precedenza, facilitano il lavoro dell’apparato digerente.
La lievitazione con il lievito di birra è una pratica recentissima, pochissimi sono a conoscenza di questo fatto. Questo metodo per fare il pane ha circa cento anni, da quando Pasteur nel 1854 ha studiato i “micro-organismi” che “sollevano” il liquido con formazione di gas (anidride carbonica). Successivamente questi micro-organismi vennero classificati e si scoprì che sono dei funghi. Vennero chiamati anche “lievito”, termine tuttora in uso, ma già da tempo conosciuto. Infatti questo termine era già noto nel Medio Evo e indicava la possibilità di gonfiarsi. Attualmente, in commercio si trova quasi esclusivamente pane a lievitazione con “lievito di birra”, che sono funghi del ceppo selezionato “Saccaromyces Cerevisie” (cervisie significa birra). Dalla scoperta di Pasteur all’uso comune del “lievito” in sostituzione della “pasta madre”, passarono pochi anni, questo immediato e clamoroso successo è stato determinato del fatto che, mentre per fare il pane con la pasta madre serve conoscere l’arte della panificazione, con il lievito “non si sbaglia mai”, non serve l’arte. Con ciò non sto affermando che i fornai sono delle persone disoneste, che non conoscono il loro lavoro tutt’altro, sono molto attenti alle Leggi e le osservano. Il problema è un altro, sta in chi ha fatto le Leggi!
Ricordo un aneddoto: quando all’inizio presentarono il lievito per fare il pane, molti fornai lo rifiutarono perché dicevano che non volevano fare il pane con la “medicina”.
Tra le due fermentazioni, c’è una notevole differenza. Il lievito fermenta l’impasto, anche lui scinde gli amidi in zuccheri semplici. La difformità tra le due lievitazioni sta nei metaboliti che si formano. Il lievito di birra produce come risultato anidride carbonica e alcool etilico, questa è una fermentazione alcolica. Nel pane non rimane dell’alcool perché la cottura lo fa evaporare. L’alcool nel nostro organismo non è un alimento di notevole importanza, il più delle volte può anche causare danni.
Qui troviamo il nodo sostanziale della differenza tra le due “lievitazioni”: mentre nella “pasta madre” la fermentazione è fatta da batteri che operano come il nostro sistema digestivo, il lievito opera in maniera difforme. Conseguenza: al nostro organismo arrivano dei messaggi differenti. Ora, se questo succede una volta ogni tanto, non ci sono problemi, ma se una persona mangia pane tre volte al giorno per trecentosessantacinque giorni l’anno non è indifferente. Con la pasta madre stimoliamo energicamente la flora batterica intestinale utile e indispensabile per una corretta digestione (ricordo che la sede principale del nostro sistema immunitario sta nell’intestino, chiamato anche secondo cervello. Quando ci sono problemi di salute la prima cosa da fare è riordinare il sistema digestivo). Il pane fatto con il lievito di birra, a differenza del pane fatto con la pasta madre, stimola i funghi intestinali. Si aggiunge un altro grave problema: il grande consumo di zucchero raffinato, altro “veleno” in cui i funghi intestinali si trovano a loro agio e prosperano. Nel nostro intestino ci sono dei funghi, sono importanti e devono esserci. Questi devono essere in equilibrio con tutta la flora batterica, mentre diventano patologici quando prosperano troppo nell’intestino, quando sono in sovrannumero. Lo stimolo, per i funghi, a moltiplicarsi in modo eccessivo “il più delle volte” è dato dal pane lievitato con il lievito di birra. Una delle principali conseguenze, e la più conosciuta, è la famosa “Candida”, molte donne ne sanno qualcosa per i problemi vaginali. La candida, e altri ceppi di funghi, colonizzano il tratto intestinale, impedendo una corretta assimilazione dei nutrienti, causando una intossicazione generale dell’organismo, con conseguenza di una debilitazione generale, a causa del mal funzionamento del sistema immunitario. Molte infezioni si possono curare solamente se si rimette in ordine l’intestino, che è la sede principale del nostro sistema immunitario. Non sostituendo la causa del malessere (tra cui il pane bianco fatto con il lievito di birra) diventa difficile uscire da molte problematiche di salute, spesso croniche.
Fortunatamente possiamo trovare del pane di ottima qualità preparato con la “pasta madre”. La tradizione non è andata perduta e qualche fornaio amante dell’arte della vera panificazione ha sempre continuato a farlo. Questo pane è stato riscoperto da chi cerca di nutrirsi in maniera naturale, più equilibrata e tra questi c’è chi ha imparato l’arte della panificazione. Il pane con la “pasta madre” è più difficile da spiegare che fare, personalmente ho imparato più guardando e collaborando con chi mi ha insegnato l’arte che di tutte le lezioni teoriche alle quali ho partecipato.
Gli ingredienti del pane: farina integrale, macinata a pietra, pasta madre, sale, acqua.
Farina, il grano deve essere esclusivamente di provenienza biologica, perché nella crusca di solito si depositano i pesticidi. Per un buon pane equilibrato bisogna usare la farina integrale, dove c’è la “crusca”, per cui dovete usare solo grano di provenienza biologica. Cercate le varietà di grano tenero più adatte alla panificazione. In commercio ci sono queste farine e si trovano anche macinate a pietra. Per avere la farina integrale al 100% dovete macinarvela voi, perché in quello prodotto industrialmente per legge bisogna togliere il 5% di “crusca” (non commento questa legge!).
La pasta madre: chiedetela a qualcuno che si fa già il pane.
Acqua: questo è un altro punto dolente. L’acqua più pura è, meglio è. Chi ha la possibilità di essere nelle vicinanze di una buona fonte è veramente fortunato. Si può usare l’acqua dell’acquedotto con l’accortezza di metterla in un contenitore aperto un paio di giorni prima e mescolarla di tanto in tanto, così il cloro se ne và. Anche aggiungendo un paio di gocce di limone l’acqua riprende più vigore.
Sale marino integrale, 10 grammi ogni kilogrammo di impasto, dipende poi dai gusti.
Posso a questo punto descrivervi solamente come faccio io il pane: prendo la pasta madre, che ho tenuto “liofilizzata” in mezzo a della farina, la sbriciolo in una ciotola ci aggiungo acqua e farina e impasto. L’impasto sarà morbido, come uno yogurt (più morbido rispetto all’impasto finale, serve a far ripartire meglio i batteri). Lascio riposare tutta una notte e alla mattina mi trovo il mio impasto ben fermentato. Aggiungo acqua con il sale e farina, impasto rendendolo più denso, lo lascio riposare un po’, circa 30 minuti, poi prendo un pochino di pasta madre e la metto da parte per la volta successiva, faccio la forma e dopo due ore e mezza lo metto in forno a cucinare. Semplice!
Il sistema migliore per conservare “a lungo” (una settimana e più) la pasta madre è averla impastata e appiattita con della farina. Più farina si riesce a far prendere e prima si “secca”. Questo disco di pasta madre si mette in mezzo a dell’altra farina in una ciotola o in sacchetto di carta. La pasta madre in questa maniera si disidrata, si può dire che viene quasi liofilizzata, cioè viene rimossa l’acqua, e così tutta l’attività batterica rallenta. La pasta madre rimane quiescente per una settimana e più. Quando la riprendiamo per rifare il pane questi fermenti hanno bisogno di alcune ore per riprendersi (come spiegato prima, in un impasto molto morbido, quindi ricco di acqua). Una mia zia mi racconta che sua madre, quando faceva il pane, il pezzetto di pasta madre lo metteva sulla mensola di legno sopra al focolare, questo si seccava, però appena veniva impastato cominciava sempre brillantemente il suo lavoro (e facevano il pane ogni 15 giorni). Spiegato come si conserva senza tanti problemi la “pasta madre”! Ora entro nel vivo del processo per fare una pagnotta di un kilogrammo. Si prendono gli 80 gr. di pasta madre, che era “addormentata”, si sbriciola per bene, essendo secca è facile da farsi, e si impasta aggiungendo 240 gr. tra farina e acqua (importante: tiepida in inverno, fresca in estate) (150 gr. farina 90 gr. acqua attenzione questi pesi sono indicativi perché se la giornata è secca la farina chiama più acqua, se è umida vuole meno acqua, e poi dipende anche dal tipo di grano utilizzato, ognuno richiede una % di acqua leggermente diversa). Ora ci ritroviamo con un totale di 320 gr. di impasto, lo si può fare in una ciotola, si copre con un panno, ricordo che l’impasto deve essere morbido. Questo impasto deve risvegliare la pasta madre, solitamente ha bisogno di almeno 10 ore per riprendersi (anche questo è indicativo e molto dipende dalla pasta madre e dalla temperatura dell’ambiente). Un sistema semplice: la sera prima di andare a letto si prepara l’impasto e indicativamente alla mattina è pronto per continuare la lavorazione. Ricordo che la fermentazione non sopporta le correnti d’aria e gli sbalzi di temperatura, ama il caldo umido e la tranquillità. Siamo arrivati alla mattina e si controlla se l’impasto è lievitato bene. Se sì, si può continuare: ai 320 gr che abbiamo aggiungiamo ora 960gr tra farina e acqua salata (circa 610 gr. di farina e 350 gr di acqua con 10gr di sale) si impasta per bene e se c’è bisogno si può aggiungere o un po’ di farina o acqua. Dopo aver amalgamato bene il tutto e l’impasto è omogeneo si lascia riposare per 30 minuti, coperto da un panno. Ora abbiamo 1.280 gr. di impasto e passato il tempo del riposo, si prendono 80 gr. di pasta e la si mette via per la prossima volta, con il rimanente si da la forma che si desidera e si lascia fermentare per due ore e mezza circa, poi è pronto per essere infornato. Il forno deve essere sui 250° e l’importante è mettere un pentolino con dell’acqua nel forno, in modo che il pane si cucini in un bagno di vapore. Dopo una decina di minuti si abbassa la temperatura di 10 gradi. La cottura totale deve essere di 30 minuti circa. Finita la cottura si toglie il pane dal forno e lo si lascia riposare avvolto da un panno per almeno 3-4 ore prima di mangiarlo, se si aspetta di più è ancora meglio, così l’umidità esce bene. Questo tipo di pane dura una settimana.
Buon pane a tutti
Farine e pasta
Le farine si distinguono in farine di grano tenero e farine di grano duro.
Dal latino far, farro. Anche in questo caso bisogna sempre chiederci da che tipo di grano proviene questa farina. Un grano utile al nostro organismo oppure un grano a norma di legge, che con noi non c’entra niente? Dal grano si ottiene due tipi di farina, quella di grano duro per la pasta e quella di grano tenero per il pane, dolci, pizza, crackers… Le paste alimentari da cuocere sicuramente derivano dall’antica lasagna (laganum) di pasta sfoglia presente tra i Romani e forse tra gli Etruschi. Questa pasta sfoglia era cotta al forno in timballi di pasta e ricotta o fritta nell’olio e dolcificata con il miele. La pasta fino a pochi anni fa era un cibo della festa. Verso la fine del settecento comincia ed essere più usata, nel Veneto ogni famiglia abbiente preparava in casa i bigoli integrali con la trafila in bronzo. Pian piano si diffonde questa pratica e le donne diventano abilissime nel preparare le paste fatte in casa con la farina di grano tenero unita all’uovo. A Napoli la pasta veniva fatta seccare per le strade su apposite pertiche. Gli spaghetti di grano duro sono un’invenzione dell’ottocento. Solamente dopo il 1960 la pasta si diffonde in ogni famiglia come alimento quotidiano in Italia e nel mondo. Questo successo è dovuto al poco tempo che si può dedicare alla cucina. Questa cosa ci deve far pensare: le abitudini alimentari dei nostri giorni sono recentissime. Mentre anni fa la farina utilizzata per fare la pasta era integrale, oggi le paste sono principalmente bianche, cioè composte da amido in modo particolare, perdendo in questo tutto il loro naturale valore nutritivo. La farina bianca ha cominciato a diffondersi verso la fine del 1800 quando sono stati inventai i molini a cilindri metallici. Il perché di questo enorme successo e chiaro: il bianco voleva dire pulito, lusso, candido e dopo il periodo buio del medioevo non poteva che essere un successo. Altro vocabolo per indicare questo tipo di farina è “raffinata”, questo termine indica qualcosa di delicato, gentile, bello, per cui nutrirsi di qualcosa di integrale diventa quasi “sudiciume”, riflettiamo su questo particolare. Questi molini oltre a riuscire a separare molto bene le varie parti del grano danno delle farine che lasciano molti dubbi sul loro potere “energetico e vitale”. I cilindri riscaldano la farina, che in questo modo perde molte delle preziose vitamine e enzimi. Inoltre si ossidano i grassi contenuti nel germe. E per finire il ferro dei cilindri, rilascia ioni alla farina modificando quell’alimento che il nostro organismo conosceva. L’altra faccia della medaglia, per chi desidera, si trova tranquillamente della farina integrale macinata come si deve, usando macine a pietra che girano lente, in questo modo la farina non si riscalda, non ci sono problemi di ioni di ferro e l’ossidazione è di molto ridotta. Queste macine, permettono una minore frantumazione delle strutture cellulari questo consente di conservare ancora gran parte dell’attività enzimatica del frumento. La pasta che conosciamo viene essiccata con concorrenti di aria calda. Ora più quest’aria è calda e più in fretta, ovviamente, si asciuga la pasta. Questo metodo distrugge gli enzimi utili contenuti nella pasta che ci servono per la sua digestione. In commercio si trovano: paste di grano non radiate, macinate a pietra e asciugate lentamente, questo è cibo per la nostra mente e il nostro fisico. Le paste industriali “a termine di legge” di solito sono cibo per la “classe medica e le industrie farmaceutiche”. L’uso eccessivo di pasta bianca, amido, oltre a causare muco con conseguenza di raffreddori, bronchiti, sinusiti, otiti, comporta anche un deposito di colle nel sistema sanguigno con la conseguenza di una cattiva fluidità del sangue e la formazione di ateromi.
La farina è l’ingrediente principale per panificare e produrre dolci ed è su questa affermazione che dobbiamo soffermarci con attenzione. La farina è il prodotto della macinazione del frumento, il quale viene “scomposto” in alcuni sottoprodotti: la farina, la crusca, il cruschello, la farinetta, il germe. La crusca è l’involucro esterno del chicco del frumento, in genere viene separata ed avviata ad usi non alimentari umani. Il germe viene separato all’inizio della macinazione, per evitare che il suo contenuto ricco di olio possa ossidarsi ed irrancidire la farina.
Per il suo utilizzo, il grano deve essere macinato e ciò avviene in un determinato numero di operazioni:
- Pulizia del grano
- Controllo dell’umidità del grano
- Prima macinazione di rottura dei chicchi
- Pulitura delle semole
- Macinazione vera e propria
- Abburattamento (raffinazione)
I grani duri, che provengono da zone calde e assolate, contengono una grande quantità di proteine (glutine) e sono ideali per la produzione delle paste alimentari.
Le farine di grano duro sono di colore giallino e decisamente più granulose.
Dalla macinazione del grano duro si ottiene uno sfarinato più grossolano, a spigoli vivi, la semola. Questo prodotto è adatto alla produzione di pasta alimentare, la pasta di semola, appunto.
Dalla rimacinazione della semola si ottiene semola rimacinata, detta semolato o farina di grano duro, che viene utilizzata per produrre il pane di grano duro, tipico della Puglia, del Molise e della Basilicata.
I grani teneri sono più ricchi di sostanze amidacee e meno di sostanze proteiche rispetto ai duri (anche se queste componenti variano molto tra una varietà di grano tenero e l’altro), danno farine di colore bianco, (perché normalmente raffinate) hanno consistenza fine e trovano il loro impiego ottimale nella panificazione e nella pasticceria.
Determinazione della forza della farina
La proprietà più importante della farina è la sua forza, cioè la capacità di resistere nell’arco del tempo alla lavorazione. La forza della farina deriva dalla qualità del grano macinato per produrla, quindi dal suo contenuto proteico, in particolare di quello di gliadina e glutenina. Queste due proteine semplici poste a contatto con l’acqua formano un complesso proteico chiamato glutine e forma la struttura portante dell’impasto rappresentata come forza della farina. Si tratta di una sorta di reticolo all’interno della massa di farina e acqua che la rende compatta, elastica e capace di trattenere gli amidi ed eventualmente i gas della lievitazione o fermentazione che formano così le bolle caratteristiche della struttura spugnosa di pane ed altri prodotti lievitati.
In base alla quantità, ma anche alla qualità, del glutine contenuto in una data farina, l’impasto con l’acqua avrà più o meno resistenza (P) ed elasticità (L) e varierà anche il tempo necessario per la lievitazione.
Leader mondiale nella produzione di sistemi per determinare la Forza della farina è la Chopin col suo Alveografo. Tale macchina è in grado di determinare il fattore di panificabilità W, cioè l’area del tracciato finale che disegna l’Alveografo dato dalla resistenza P e dall’elasticità L. La tecnica consiste nell’impastare 250 gr di farina con acqua leggermente salata per otto minuti, ricavare da questo impasto cinque “pastine” rotonde. Queste riposeranno 15 minuti circa a 25 °C in un apposito scomparto dell’Alveografo, per poi venire poste su un sistema di insufflaggio di aria che ne testerà la resistenza. Le “pastine” si gonfieranno e in base al volume della sfera ricavato, si avrà il P, L e il W della farina. Va da sé che, più grande sarà la sfera, più forza avrà la farina.
Un alto valore di W indica un alto contenuto di glutine; questo vuol dire che la farina assorbirà molta acqua e che l’impasto sarà resistente e tenace e che lieviterà lentamente perché le maglie del reticolo di glutine saranno fitte e resistenti. Viceversa, un W basso indica una farina che ha bisogno di poca acqua e che lievita in fretta, ma che darà un impasto (e un pane) leggero e poco consistente.
Ecco un indice di massima:
- Fino a W 170 (deboli): assorbono circa il 50% del loro peso in acqua.
- Da W 180 a W 260 (medie): assorbono dal 55% al 65% del loro peso in acqua.
- Da W 280 a W 350 (forti): assorbono dal 65% al 75% del loro peso in acqua.
- Oltre i W 350 (farine speciali): assorbono fino al 90% del loro peso in acqua.
Le farine in commercio al dettaglio hanno una forza variabile. Solitamente quella delle 0 e 00 generiche si aggira sul W 150, quella delle 00 specifiche per prodotti non lievitati dal W 80 al W 150, quella delle 00 e 0 specifiche per pizza dal W 200 al W 280, quella delle 00 specifiche per dolci lievitati intorno al W 300, quella delle farine vendute come manitoba quasi tutte 0 dal W 260 al W 420.
Se proprio non sappiamo che farina è la nostra, possiamo fare una piccola prova: mischiamo 100 g di farina e 60 di acqua, se l’impasto risultante è molto appiccicoso allora la farina è debole, se viene consistente allora la farina è forte. Potrete divertirvi a fare un po’ di prove con le farine che comprate normalmente così avrete un’idea di che cosa state usando.
Le farine quindi non sono tutte uguali: dalla scelta della farina spesso dipende la riuscita di una preparazione.
Nota bene: la standardizzazione dei prodotti che il “mercato” richiede ha portato ad avere dei “grani tutti uguali” (la bio-diversità non interessa) con un aumento del glutine. In questi grani il contenuto di gliadina “la componente meno digeribile” è aumentata. Questo comporta per il nostro organismo una sua digestione molto faticosa e per molti anche nociva. I produttori di farine non sono più interessati ad avere le “varietà”, bensì ad avere una farina che sia sempre uguale nel tempo, in modo che chi poi va a lavorarla possa usare una quantità precisa e sempre costante di acqua per fare gli impasti. Il nostro obiettivo invece è quello di capire la varietà di grano che ci troviamo davanti, per poterlo lavorare al meglio. Spesso cambiando grano/sperimentando ci troviamo a dover variare l’apporto di acqua e anche a dover fare più di un impasto per riuscire ad ottenere un pane ottimale da una nuova farina.
Ferdinando Donolato